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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

La crisi che stiamo vivendo a causa della pandemia colpisce tutti; possiamo uscirne migliori se cerchiamo tutti insieme il bene comune; al contrario, usciremo peggiori. Purtroppo, assistiamo all’emergere di interessi di parte. Per esempio, c’è chi vorrebbe appropriarsi di possibili soluzioni, come nel caso dei vaccini e poi venderli agli altri. Alcuni approfittano della situazione per fomentare divisioni: per cercare vantaggi economici o politici, generando o aumentando conflitti. Altri semplicemente non si interessano della sofferenza altrui, passano oltre e vanno per la loro strada (cfr Lc 10,30-32). Sono i devoti di Ponzio Pilato, se ne lavano le mani.

La risposta cristiana alla pandemia e alle conseguenti crisi socio-economiche si basa sull’amore, anzitutto l’amore di Dio che sempre ci precede (cfr 1 Gv 4,19). Lui ci ama per primo, Lui sempre ci precede nell’amore e nelle soluzioni. Lui ci ama incondizionatamente, e quando accogliamo questo amore divino, allora possiamo rispondere in maniera simile. Amo non solo chi mi ama: la mia famiglia, i miei amici, il mio gruppo, ma anche quelli che non mi amano, amo anche quelli che non mi conoscono, amo anche quelli che sono stranieri, e anche quelli che mi fanno soffrire o che considero nemici (cfr Mt 5,44). Questa è la saggezza cristiana, questo è l’atteggiamento di Gesù. E il punto più alto della santità, diciamo così, è amare i nemici, e non è facile. Certo, amare tutti, compresi i nemici, è difficile – direi che è un’arte! Però un’arte che si può imparare e migliorare. L’amore vero, che ci rende fecondi e liberi, è sempre espansivo e inclusivo. Questo amore cura, guarisce e fa bene. Tante volte fa più bene una carezza che tanti argomenti, una carezza di perdono e non tanti argomenti per difendersi. È l’amore inclusivo che guarisce.

Dunque, l’amore non si limita alle relazioni fra due o tre persone, o agli amici, o alla famiglia, va oltre. Comprende i rapporti civici e politici (cfr Catechismo della Chiesa Cattolica [CCC], 1907-1912), incluso il rapporto con la natura (Enc. Laudato si’ [LS], 231). Poiché siamo esseri sociali e politici, una delle più alte espressioni di amore è proprio quella sociale e politica, decisiva per lo sviluppo umano e per affrontare ogni tipo di crisi (ibid., 231). Sappiamo che l’amore feconda le famiglie e le amicizie; ma è bene ricordare che feconda anche le relazioni sociali, culturali, economiche e politiche, permettendoci di costruire una “civiltà dell’amore”, come amava dire San Paolo VI e, sulla scia, San Giovanni Paolo II. Senza questa ispirazione, prevale la cultura dell’egoismo, dell’indifferenza, dello scarto, cioè scartare quello a cui io non voglio bene, quello che io non posso amare o coloro che a me sembra sono inutili nella società. Oggi all’entrata una coppia mi ha detto: “Preghi per noi perché abbiamo un figlio disabile”. Io ho domandato: “Quanti anni ha? – Tanti – E cosa fate? – Noi lo accompagniamo, lo aiutiamo”. Tutta una vita dei genitori per quel figlio disabile. Questo è amore. E i nemici, gli avversari politici, secondo la nostra opinione, sembrano essere disabili politici e sociali, ma sembrano. Solo Dio sa se lo sono o no. Ma noi dobbiamo amarli, dobbiamo dialogare, dobbiamo costruire questa civiltà dell’amore, questa civiltà politica, sociale, dell’unità di tutta l’umanità. Tutto ciò è l’opposto di guerre, divisioni, invidie, anche delle guerre in famiglia. L’amore inclusivo è sociale, è familiare, è politico: l’amore pervade tutto!

Il coronavirus ci mostra che il vero bene per ciascuno è un bene comune non solo individuale e, viceversa, il bene comune è un vero bene per la persona (cfr CCC, 1905-1906). Se una persona cerca soltanto il proprio bene è un egoista. Invece la persona è più persona, quando il proprio bene lo apre a tutti, lo condivide. La salute, oltre che individuale, è anche un bene pubblico. Una società sana è quella che si prende cura della salute di tutti.

Un virus che non conosce barriere, frontiere o distinzioni culturali e politiche deve essere affrontato con un amore senza barriere, frontiere o distinzioni. Questo amore può generare strutture sociali che ci incoraggiano a condividere piuttosto che a competere, che ci permettono di includere i più vulnerabili e non di scartarli, e che ci aiutano ad esprimere il meglio della nostra natura umana e non il peggio. Il vero amore non conosce la cultura dello scarto, non sa cosa sia. Infatti, quando amiamo e generiamo creatività, quando generiamo fiducia e solidarietà, è lì che emergono iniziative concrete per il bene comune. E questo vale sia a livello delle piccole e grandi comunità, sia a livello internazionale. Quello che si fa in famiglia, quello che si fa nel quartiere, quello che si fa nel villaggio, quello che si fa nella grande città e internazionalmente è lo stesso: è lo stesso seme che cresce e dà frutto. Se tu in famiglia, nel quartiere cominci con l’invidia, con la lotta, alla fine ci sarà la “guerra”. Invece, se tu incominci con l’amore, a condividere l’amore, il perdono, allora ci sarà l’amore e il perdono per tutti.

Al contrario, se le soluzioni alla pandemia portano l’impronta dell’egoismo, sia esso di persone, imprese o nazioni, forse possiamo uscire dal coronavirus, ma certamente non dalla crisi umana e sociale che il virus ha evidenziato e accentuato. Quindi, state attenti a non costruire sulla sabbia (cfr Mt 7,21-27)! Per costruire una società sana, inclusiva, giusta e pacifica, dobbiamo farlo sopra la roccia del bene comune. Il bene comune è una roccia. E questo è compito di tutti noi, non solo di qualche specialista. San Tommaso d’Aquino diceva che la promozione del bene comune è un dovere di giustizia che ricade su ogni cittadino. Ogni cittadino è responsabile del bene comune. E per i cristiani è anche una missione. Come insegna Sant’Ignazio di Loyola, orientare i nostri sforzi quotidiani verso il bene comune è un modo di ricevere e diffondere la gloria di Dio.

Purtroppo, la politica spesso non gode di buona fama, e sappiamo il perché. Questo non vuol dire che i politici siano tutti cattivi, no, non voglio dire questo. Soltanto dico che purtroppo la politica spesso non gode di buona fama. Ma non bisogna rassegnarsi a questa visione negativa, bensì reagire dimostrando con i fatti che è possibile, anzi, doverosa una buona politica, quella che mette al centro la persona umana e il bene comune. Se voi leggete la storia dell’umanità troverete tanti politici santi che sono andati per questa strada. È possibile nella misura in cui ogni cittadino e, in modo particolare, chi assume impegni e incarichi sociali e politici, radica il proprio agire nei principi etici e lo anima con l’amore sociale e politico. I cristiani, in modo particolare i fedeli laici, sono chiamati a dare buona testimonianza di questo e possono farlo grazie alla virtù della carità, coltivandone l’intrinseca dimensione sociale.

È dunque tempo di accrescere il nostro amore sociale – voglio sottolineare questo: il nostro amore sociale – contribuendo tutti, a partire dalla nostra piccolezza. Il bene comune richiede la partecipazione di tutti. Se ognuno ci mette del suo, e se nessuno viene lasciato fuori, potremo rigenerare relazioni buone a livello comunitario, nazionale, internazionale e anche in armonia con l’ambiente (cfr LS, 236). Così nei nostri gesti, anche quelli più umili, si renderà visibile qualcosa dell’immagine di Dio che portiamo in noi, perché Dio è Trinità, Dio è amore. Questa è la più bella definizione di Dio della Bibbia. Ce la dà l’apostolo Giovanni, che tanto amava Gesù: Dio è amore. Con il suo aiuto, possiamo guarire il mondo lavorando tutti insieme per il bene comune, non solo per il proprio bene, ma per il bene comune, di tutti.

Papa Francesco, Udienza Generale. Cortile San Damaso. Mercoledì, 9 settembre 2020

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!


Dopo tanti mesi riprendiamo il nostro incontro faccia a faccia e non schermo a schermo. Faccia a faccia. Questo è bello! L’attuale pandemia ha evidenziato la nostra interdipendenza: siamo tutti legati, gli uni agli altri, sia nel male che nel bene. Perciò, per uscire migliori da questa crisi, dobbiamo farlo insieme. Insieme, non da soli, insieme. Da soli no, perché non si può! O si fa insieme o non si fa. Dobbiamo farlo insieme, tutti quanti, nella solidarietà. Questa parola oggi vorrei sottolinearla: solidarietà.

Come famiglia umana abbiamo l’origine comune in Dio; abitiamo in una casa comune, il pianeta-giardino, la terra in cui Dio ci ha posto; e abbiamo una destinazione comune in Cristo. Ma quando dimentichiamo tutto questo, la nostra interdipendenza diventa dipendenza di alcuni da altri – perdiamo questa armonia dell’interdipendenza nella solidarietà – aumentando la disuguaglianza e l’emarginazione; si indebolisce il tessuto sociale e si deteriora l’ambiente. È sempre lo stesso modo di agire.

Pertanto, il principio di solidarietà è oggi più che mai necessario, come ha insegnato San Giovanni Paolo II (cfr Enc. Sollicitudo rei socialis, 38-40). In un mondo interconnesso, sperimentiamo che cosa significa vivere nello stesso “villaggio globale”. È bella questa espressione: il grande mondo non è altra cosa che un villaggio globale, perché tutto è interconnesso. Però non sempre trasformiamo questa interdipendenza in solidarietà. C’è un lungo cammino fra l’interdipendenza e la solidarietà. Gli egoismi – individuali, nazionali e dei gruppi di potere – e le rigidità ideologiche alimentano al contrario «strutture di peccato» (ibid., 36).

«La parola “solidarietà” si è un po’ logorata e a volte la si interpreta male, ma indica molto di più di qualche atto sporadico di generosità. È di più! Richiede di creare una nuova mentalità che pensi in termini di comunità, di priorità della vita di tutti rispetto all’appropriazione dei beni da parte di alcuni» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 188). Questo significa solidarietà. Non è solo questione di aiutare gli altri – questo è bene farlo, ma è di più –: si tratta di giustizia (cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, 1938-1940). L’interdipendenza, per essere solidale e portare frutti, ha bisogno di forti radici nell’umano e nella natura creata da Dio, ha bisogno di rispetto dei volti e della terra.

La Bibbia, fin dall’inizio, ci avverte. Pensiamo al racconto della Torre di Babele (cfr Gen 11,1-9), che descrive ciò che accade quando cerchiamo di arrivare al cielo – la nostra meta – ignorando il legame con l’umano, con il creato e con il Creatore. È un modo di dire: questo accade ogni volta che uno vuole salire, salire, senza tenere conto degli altri. Io solo! Pensiamo alla torre. Costruiamo torri e grattacieli, ma distruggiamo la comunità. Unifichiamo edifici e lingue, ma mortifichiamo la ricchezza culturale. Vogliamo essere padroni della Terra, ma roviniamo la biodiversità e l’equilibrio ecologico. Vi ho raccontato in qualche altra udienza di quei pescatori di San Benedetto del Tronto che sono venuti quest’anno e mi hanno detto: “Abbiamo tolto dal mare 24 tonnellate di rifiuti, dei quali la metà era plastica”. Pensate! Questi hanno lo spirito di prendere i pesci, sì, ma anche i rifiuti e portarli fuori per pulire il mare. Ma questo [inquinamento] è rovinare la terra, non avere solidarietà con la terra che è un dono e l’equilibrio ecologico.

Ricordo un racconto medievale che descrive questa “sindrome di Babele”, che è quando non c’è solidarietà. Questo racconto medievale dice che, durante la costruzione della torre, quando un uomo cadeva – erano schiavi – e moriva nessuno diceva nulla, al massimo: “Poveretto, ha sbagliato ed è caduto”. Invece, se cadeva un mattone, tutti si lamentavano. E se qualcuno era il colpevole, era punito! Perché? Perché un mattone era costoso da fare, da preparare, da cuocere. C’era bisogno di tempo e di lavoro per fare un mattone. Un mattone valeva di più della vita umana. Ognuno di noi pensi cosa succede oggi. Purtroppo anche oggi può succedere qualcosa del genere. Cade qualche quota del mercato finanziario – lo abbiamo visto sui giornali in questi giorni – e la notizia è in tutte le agenzie. Cadono migliaia di persone a causa della fame, della miseria e nessuno ne parla.

Diametralmente opposta a Babele è la Pentecoste, lo abbiamo sentito all’inizio dell’udienza (cfr At 2,1-3). Lo Spirito Santo, scendendo dall’alto come vento e fuoco, investe la comunità chiusa nel cenacolo, le infonde la forza di Dio, la spinge a uscire, ad annunciare a tutti Gesù Signore. Lo Spirito crea l’unità nella diversità, crea l’armonia. Nel racconto della Torre di Babele non c’era l’armonia; c’era quell’andare avanti per guadagnare. Lì, l’uomo era un mero strumento, mera “forza-lavoro”, ma qui, nella Pentecoste, ognuno di noi è uno strumento, ma uno strumento comunitario che partecipa con tutto sé stesso all’edificazione della comunità. San Francesco d’Assisi lo sapeva bene, e animato dallo Spirito dava a tutte le persone, anzi, alle creature, il nome di fratello o sorella (cfr LS, 11; cfr San Bonaventura, Legenda maior, VIII, 6: FF 1145). Anche il fratello lupo, ricordiamo.

Con la Pentecoste, Dio si fa presente e ispira la fede della comunità unita nella diversità e nella solidarietà. Diversità e solidarietà unite in armonia, questa è la strada. Una diversità solidale possiede gli “anticorpi” affinché la singolarità di ciascuno – che è un dono, unico e irripetibile – non si ammali di individualismo, di egoismo. La diversità solidale possiede anche gli anticorpi per guarire strutture e processi sociali che sono degenerati in sistemi di ingiustizia, in sistemi di oppressione (cfr Compendio della dottrina sociale della Chiesa, 192). Quindi, la solidarietà oggi è la strada da percorrere verso un mondo post-pandemia, verso la guarigione delle nostre malattie interpersonali e sociali. Non ce n’è un’altra. O andiamo avanti con la strada della solidarietà o le cose saranno peggiori. Voglio ripeterlo: da una crisi non si esce uguali a prima. La pandemia è una crisi. Da una crisi si esce o migliori o peggiori. Dobbiamo scegliere noi. E la solidarietà è proprio una strada per uscire dalla crisi migliori, non con cambiamenti superficiali, con una verniciata così e tutto è a posto. No. Migliori!

Nel mezzo della crisi, una solidarietà guidata dalla fede ci permette di tradurre l’amore di Dio nella nostra cultura globalizzata, non costruendo torri o muri – e quanti muri si stanno costruendo oggi - che dividono, ma poi crollano, ma tessendo comunità e sostenendo processi di crescita veramente umana e solida. E per questo aiuta la solidarietà. Faccio una domanda: io penso ai bisogni degli altri? Ognuno si risponda nel suo cuore.

Nel mezzo di crisi e tempeste, il Signore ci interpella e ci invita a risvegliare e attivare questa solidarietà capace di dare solidità, sostegno e un senso a queste ore in cui tutto sembra naufragare. Possa la creatività dello Spirito Santo incoraggiarci a generare nuove forme di familiare ospitalità, di feconda fraternità e di universale solidarietà. Grazie.

Papa Francesco, Udienza Generale. Cortile San Damaso. Mercoledì, 2 settembre 2020

Il Santo Padre Francesco ha nominato don Dario Gervasi vescovo ausiliare per il settore Sud della diocesi di Roma. Il cardinale Angelo De Donatis, vicario generale di Sua Santità per la diocesi di Roma, ha dato l’annuncio della nomina del Pontefice lo scorso lunedì 31 agosto 2020. L’ordinazione episcopale si terrà il 18 ottobre nella basilica di San Giovanni in Laterano.

Don Gervasi è nato a Roma l’8 maggio del 1968 ed è entrato al Pontificio Seminario Romano Maggiore nel settembre 1988; è stato ordinato sacerdote il 22 maggio del 1994 dall’allora cardinale vicario Camillo Ruini perché «san Giovanni Paolo II era ammalato e non aveva potuto presiedere le ordinazioni», sottolinea il cardinale De Donatis. Il primo incarico, dal 1994 al 2000, per don Gervasi è stato quello di vicario parrocchiale nella comunità di Santa Maria delle Grazie al Trionfale; e ancora di vicario parrocchiale ai Santi Gioacchino e Anna (fino al 2003), comunità di cui poi è divenuto parroco, e che ha guidato fino al 2008. È tornato quindi al Seminario Romano come vicerettore dal 2008 al 2014, «quando è arrivata la nomina di parroco – ricorda il cardinale De Donatis – della comunità della Resurrezione di Nostro Signore Gesù Cristo a Giardinetti». Dall’anno scorso è anche prefetto della XVII prefettura, mentre sono numerosi gli altri incarichi ricoperti nel corso degli anni: incaricato ad interim del Servizio per le vocazioni della diocesi di Roma (2009 – 2011); incaricato dell’Opera Vocazioni Sacerdotali (2009 – 2011); deputato della Congregazione dei Missionari dell’Istituto Imperiali Borromeo (2009 – 2014).

«Don Dario – dichiara ancora il vicario – gode della stima e dell’affetto di tutti noi. Conosciamo il suo amore al Signore e alla Chiesa, alla nostra diocesi, il suo senso di responsabilità, la sua umanità, la giovialità e serenità che trasmette a tutti. Gli auguriamo di poter continuare con l’entusiasmo e la passione che lo caratterizzano la delicata missione nel settore Sud e nella pastorale familiare diocesana, sulla scia dei vescovi che lo hanno preceduto in questi anni».

«Sono emozionato, contento e anche un po’ confuso», commenta don Gervasi. «Sono ancora un po’ frastornato dalla gioia e incredulo, ma molto felice di poter stare nel settore Sud, per cercare, insieme, di servire il Signore Gesù. È importante – prosegue – ricordare di mantenere uno sguardo di fede, affidarci a Cristo Signore, ricordarci che Lui è con noi e ci sta vicino perché possiamo dare la testimonianza della nostra vita cristiana. Questo vale per tutta Roma, per tutti; insieme possiamo essere il volto della Chiesa di oggi, che sa affrontare anche momenti difficili però con uno spirito profondo di fede, uno sguardo che sappia vedere oltre le apparenze».

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