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Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Davanti alla pandemia e alle sue conseguenze sociali, molti rischiano di perdere la speranza. In questo tempo di incertezza e di angoscia, invito tutti ad accogliere il dono della speranza che viene da Cristo. È Lui che ci aiuta a navigare nelle acque tumultuose della malattia, della morte e dell’ingiustizia, che non hanno l’ultima parola sulla nostra destinazione finale.

La pandemia ha messo in rilievo e aggravato i problemi sociali, soprattutto la disuguaglianza. Alcuni possono lavorare da casa, mentre per molti altri questo è impossibile. Certi bambini, nonostante le difficoltà, possono continuare a ricevere un’educazione scolastica, mentre per tantissimi altri questa si è interrotta bruscamente. Alcune nazioni potenti possono emettere moneta per affrontare l’emergenza, mentre per altre questo significherebbe ipotecare il futuro.

Questi sintomi di disuguaglianza rivelano una malattia sociale; è un virus che viene da un’economia malata. Dobbiamo dirlo semplicemente: l’economia è malata. Si è ammalata. È il frutto di una crescita economica iniqua - questa è la malattia: il frutto di una crescita economica iniqua - che prescinde dai valori umani fondamentali. Nel mondo di oggi, pochi ricchissimi possiedono più di tutto il resto dell’umanità. Ripeto questo perché ci farà pensare: pochi ricchissimi, un gruppetto, possiedono più di tutto il resto dell’umanità. Questa è statistica pura. È un’ingiustizia che grida al cielo! Nello stesso tempo, questo modello economico è indifferente ai danni inflitti alla casa comune. Non si prende cura della casa comune. Siamo vicini a superare molti dei limiti del nostro meraviglioso pianeta, con conseguenze gravi e irreversibili: dalla perdita di biodiversità e dal cambiamento climatico fino all’aumento del livello dei mari e alla distruzione delle foreste tropicali. La disuguaglianza sociale e il degrado ambientale vanno di pari passo e hanno la stessa radice (cfr Enc. Laudato si’, 101): quella del peccato di voler possedere, di voler dominare i fratelli e le sorelle, di voler possedere e dominare la natura e lo stesso Dio. Ma questo non è il disegno della creazione.

«All’inizio, Dio ha affidato la terra e le sue risorse alla gestione comune dell’umanità, affinché se ne prendesse cura» (Catechismo della Chiesa Cattolica, 2402). Dio ci ha chiesto di dominare la terra in suo nome (cfr Gen 1,28), coltivandola e curandola come un giardino, il giardino di tutti (cfr Gen 2,15). «Mentre “coltivare” significa arare o lavorare [...], “custodire” vuol dire proteggere [e] preservare» (LS, 67).Ma attenzione a non interpretare questo come carta bianca per fare della terra ciò che si vuole. No. Esiste «una relazione di reciprocità responsabile» (ibid.) tra noi e la natura. Una relazione di reciprocità responsabile fra noi e la natura. Riceviamo dal creato e diamo a nostra volta. «Ogni comunità può prendere dalla bontà della terra ciò di cui ha bisogno per la propria sopravvivenza, ma ha anche il dovere di tutelarla» (ibid.). Ambedue le parti.

Difatti, la terra «ci precede e ci è stata data» (ibid.), è stata data da Dio «a tutto il genere umano» (CCC, 2402). E quindi è nostro dovere far sì che i suoi frutti arrivino a tutti, non solo ad alcuni. E questo è un elemento-chiave della nostra relazione con i beni terreni. Come ricordavano i padri del Concilio Vaticano II, «l’uomo, usando di questi beni, deve considerare le cose esteriori che legittimamente possiede non solo come proprie, ma anche come comuni, nel senso che possano giovare non unicamente a lui ma anche agli altri» (Cost. past. Gaudium et spes, 69). Infatti, «la proprietà di un bene fa di colui che lo possiede un amministratore della Provvidenza, per farlo fruttificare e spartirne i frutti con gli altri» (CCC, 2404). Noi siamo amministratori dei beni, non padroni. Amministratori. “Sì, ma il bene è mio”. È vero, è tuo, ma per amministrarlo, non per averlo egoisticamente per te.

Per assicurare che ciò che possediamo porti valore alla comunità, «l’autorità politica ha il diritto e il dovere di regolare il legittimo esercizio del diritto di proprietà in funzione del bene comune» (ibid., 2406).[1] La «subordinazione della proprietà privata alla destinazione universale dei beni [...] è una “regola d’oro” del comportamento sociale, e il primo principio di tutto l’ordinamento etico-sociale» (LS, 93).[2]

Le proprietà, il denaro sono strumenti che possono servire alla missione. Però li trasformiamo facilmente in fini, individuali o collettivi. E quando questo succede, vengono intaccati i valori umani essenziali. L’homo sapiens si deforma e diventa una specie di homo œconomicus – in senso deteriore – individualista, calcolatore e dominatore. Ci dimentichiamo che, essendo creati a immagine e somiglianza di Dio, siamo esseri sociali, creativi e solidali, con un’immensa capacità di amare. Ci dimentichiamo spesso di questo. Di fatto, siamo gli esseri più cooperativi tra tutte le specie, e fioriamo in comunità, come si vede bene nell’esperienza dei santi.[3] C’è un detto spagnolo che mi ha ispirato questa frase, e dice così: florecemos en racimo como los santos. Fioriamo in comunità come si vede nell’esperienza dei santi.

Quando l’ossessione di possedere e dominare esclude milioni di persone dai beni primari; quando la disuguaglianza economica e tecnologica è tale da lacerare il tessuto sociale; e quando la dipendenza da un progresso materiale illimitato minaccia la casa comune, allora non possiamo stare a guardare. No, questo è desolante. Non possiamo stare a guardare! Con lo sguardo fisso su Gesù (cfr Eb 12,2) e con la certezza che il suo amore opera mediante la comunità dei suoi discepoli, dobbiamo agire tutti insieme, nella speranza di generare qualcosa di diverso e di meglio. La speranza cristiana, radicata in Dio, è la nostra àncora. Essa sostiene la volontà di condividere, rafforzando la nostra missione come discepoli di Cristo, il quale ha condiviso tutto con noi.

E questo lo capirono le prime comunità cristiane, che come noi vissero tempi difficili. Consapevoli di formare un solo cuore e una sola anima, mettevano tutti i loro beni in comune, testimoniando la grazia abbondante di Cristo su di loro (cfr At 4,32-35). Noi stiamo vivendo una crisi. La pandemia ci ha messo tutti in crisi. Ma ricordatevi: da una crisi non si può uscire uguali, o usciamo migliori, o usciamo peggiori. Questa è la nostra opzione. Dopo la crisi, continueremo con questo sistema economico di ingiustizia sociale e di disprezzo per la cura dell’ambiente, del creato, della casa comune? Pensiamoci. Possano le comunità cristiane del ventunesimo secolo recuperare questa realtà - la cura del creato e la giustizia sociale: vanno insieme -, dando così testimonianza della Risurrezione del Signore. Se ci prendiamo cura dei beni che il Creatore ci dona, se mettiamo in comune ciò che possediamo in modo che a nessuno manchi, allora davvero potremo ispirare speranza per rigenerare un mondo più sano e più equo.

E per finire, pensiamo ai bambini. Leggete le statistiche: quanti bambini, oggi, muoiono di fame per una non buona distribuzione delle ricchezze, per un sistema economico come ho detto prima; e quanti bambini, oggi, non hanno diritto alla scuola, per lo stesso motivo. Che sia questa immagine, dei bambini bisognosi per fame e per mancanza di educazione, che ci aiuti a capire che dopo questa crisi dobbiamo uscire migliori. Grazie.

Papa Francesco, Udienza Generale. Biblioteca del Palazzo Apostolico. Mercoledì, 26 agosto 2020


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Grazie per l'attenzione, ci scusiamo per il disagio.

Pubblichiamo le nuove catechesi di Papa Francesco dal titolo "Guarire il Mondo": una chiave per affrontare i quesiti e i disagi che la pandemia ha messo in rilievo alla luce del Vangelo, delle virtù teologali e dei principi della dottrina sociale della Chiesa.



Catechesi - “Guarire il mondo”: 1. Introduzione

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

La pandemia sta continuando a causare ferite profonde, smascherando le nostre vulnerabilità. Molti sono i defunti, moltissimi i malati, in tutti i continenti. Tante persone e tante famiglie vivono un tempo di incertezza, a causa dei problemi socio-economici, che colpiscono specialmente i più poveri.

Per questo dobbiamo tenere ben fermo il nostro sguardo su Gesù (cfr Eb 12,2) e con questa fede abbracciare la speranza del Regno di Dio che Gesù stesso ci porta (cfr Mc 1,5; Mt 4,17; CCC, 2816). Un Regno di guarigione e di salvezza che è già presente in mezzo a noi (cfr Lc 10,11). Un Regno di giustizia e di pace che si manifesta con opere di carità, che a loro volta accrescono la speranza e rafforzano la fede (cfr 1 Cor 13,13). Nella tradizione cristiana, fede, speranza e carità sono molto più che sentimenti o atteggiamenti. Sono virtù infuse in noi dalla grazia dello Spirito Santo (cfr CCC, 1812-1813): doni che ci guariscono e che ci rendono guaritori, doni che ci aprono a orizzonti nuovi, anche mentre navighiamo nelle difficili acque del nostro tempo.

Un nuovo incontro col Vangelo della fede, della speranza e dell’amore ci invita ad assumere uno spirito creativo e rinnovato. In questo modo, saremo in grado di trasformare le radici delle nostre infermità fisiche, spirituali e sociali. Potremo guarire in profondità le strutture ingiuste e le pratiche distruttive che ci separano gli uni dagli altri, minacciando la famiglia umana e il nostro pianeta.

Il ministero di Gesù offre molti esempi di guarigione. Quando risana coloro che sono affetti da febbre (cfr Mc 1,29-34), da lebbra (cfr Mc 1,40-45), da paralisi (cfr Mc 2,1-12); quando ridona la vista (cfr Mc 8,22-26; Gv 9,1-7), la parola o l’udito (cfr Mc 7,31-37), in realtà guarisce non solo un male fisico, ma l’intera persona. In tal modo la riporta anche alla comunità, guarita; la libera dal suo isolamento perché l’ha guarita.

Pensiamo al bellissimo racconto della guarigione del paralitico a Cafarnao (cfr Mc 2,1-12), che abbiamo sentito all’inizio dell’udienza. Mentre Gesù sta predicando all’ingresso della casa, quattro uomini portano il loro amico paralitico da Gesù; e non potendo entrare, perché c’era tanta folla, fanno un buco nel tetto e calano la barella davanti a lui che sta predicando. «Gesù, vista la loro fede, disse al paralitico: Figliolo, ti sono rimessi i tuoi peccati» (v. 5). E poi, come segno visibile, aggiunse: «Alzati, prendi la tua barella e va’ a casa tua» (v. 11).

Che meraviglioso esempio di guarigione! L’azione di Cristo è una diretta risposta alla fede di quelle persone, alla speranza che ripongono in Lui, all’amore che dimostrano di avere gli uni per gli altri. E quindi Gesù guarisce, ma non guarisce semplicemente la paralisi, guarisce tutto, perdona i peccati, rinnova la vita del paralitico e dei suoi amici. Fa nascere di nuovo, diciamo così. Una guarigione fisica e spirituale, tutto insieme, frutto di un incontro personale e sociale. Immaginiamo come questa amicizia, e la fede di tutti i presenti in quella casa, siano cresciute grazie al gesto di Gesù. L’incontro guaritore con Gesù!

E allora ci chiediamo: in che modo possiamo aiutare a guarire il nostro mondo, oggi? Come discepoli del Signore Gesù, che è medico delle anime e dei corpi, siamo chiamati a continuare «la sua opera di guarigione e di salvezza» (CCC, 1421) in senso fisico, sociale e spirituale.

La Chiesa, benché amministri la grazia risanante di Cristo mediante i Sacramenti, e benché provveda servizi sanitari negli angoli più remoti del pianeta, non è esperta nella prevenzione o nella cura della pandemia. E nemmeno dà indicazioni socio-politiche specifiche (cfr S. Paolo VI, Lett. ap. Octogesima adveniens, 14 maggio 1971, 4). Questo è compito dei dirigenti politici e sociali. Tuttavia, nel corso dei secoli, e alla luce del Vangelo, la Chiesa ha sviluppato alcuni principi sociali che sono fondamentali (cfr Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, 160-208), principi che possono aiutarci ad andare avanti, per preparare il futuro di cui abbiamo bisogno. Cito i principali, tra loro strettamente connessi: il principio della dignità della persona, il principio del bene comune, il principio dell’opzione preferenziale per i poveri, il principio della destinazione universale dei beni, il principio della solidarietà, della sussidiarietà, il principio della cura per la nostra casa comune. Questi principi aiutano i dirigenti, i responsabili della società a portare avanti la crescita e anche, come in questo caso di pandemia, la guarigione del tessuto personale e sociale. Tutti questi principi esprimono, in modi diversi, le virtù della fede, della speranza e dell’amore.

Nelle prossime settimane, vi invito ad affrontare insieme le questioni pressanti che la pandemia ha messo in rilievo, soprattutto le malattie sociali. E lo faremo alla luce del Vangelo, delle virtù teologali e dei principi della dottrina sociale della Chiesa. Esploreremo insieme come la nostra tradizione sociale cattolica può aiutare la famiglia umana a guarire questo mondo che soffre di gravi malattie. È mio desiderio riflettere e lavorare tutti insieme, come seguaci di Gesù che guarisce, per costruire un mondo migliore, pieno di speranza per le future generazioni (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 24 novembre 2013, 183).

Papa Francesco, Udienza Generale. Biblioteca del Palazzo Apostolico. Mercoledì, 5 agosto 2020




Catechesi - “Guarire il mondo”: 2. Fede e dignità umana

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

La pandemia ha messo in risalto quanto siamo tutti vulnerabili e interconnessi. Se non ci prendiamo cura l’uno dell’altro, a partire dagli ultimi, da coloro che sono maggiormente colpiti, incluso il creato, non possiamo guarire il mondo.

È da lodare l’impegno di tante persone che in questi mesi stanno dando prova dell’amore umano e cristiano verso il prossimo, dedicandosi ai malati anche a rischio della propria salute. Sono degli eroi! Tuttavia, il coronavirus non è l’unica malattia da combattere, ma la pandemia ha portato alla luce patologie sociali più ampie. Una di queste è la visione distorta della persona, uno sguardo che ignora la sua dignità e il suo carattere relazionale. A volte guardiamo gli altri come oggetti, da usare e scartare. In realtà, questo tipo di sguardo acceca e fomenta una cultura dello scarto individualistica e aggressiva, che trasforma l’essere umano in un bene di consumo (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 53; Enc. Laudato si’ [LS], 22).

Nella luce della fede sappiamo, invece, che Dio guarda all’uomo e alla donna in un altro modo. Egli ci ha creati non come oggetti, ma come persone amate e capaci di amare; ci ha creati a sua immagine e somiglianza (cfr Gen 1,27). In questo modo ci ha donato una dignità unica, invitandoci a vivere in comunione con Lui, in comunione con le nostre sorelle e i nostri fratelli, nel rispetto di tutto il creato. In comunione, in armonia, possiamo dire. La creazione è un'armonia nella quale siamo chiamati a vivere. E in questa comunione, in questa armonia che è comunione, Dio ci dona la capacità di procreare e di custodire la vita (cfr Gen 1,28-29), di lavorare e prenderci cura della terra (cfr Gen 2,15; LS, 67). Si capisce che non si può procreare e custodire la vita senza armonia; sarà distrutta.

Di quello sguardo individualista, quello che non è armonia, abbiamo un esempio nei Vangeli, nella richiesta fatta a Gesù dalla madre dei discepoli Giacomo e Giovanni (cfr Mt 20,20-28). Lei vorrebbe che i suoi figli possano sedersi alla destra e alla sinistra del nuovo re. Ma Gesù propone un altro tipo di visione: quella del servizio e del dare la vita per gli altri, e la conferma restituendo subito dopo la vista a due ciechi e facendoli suoi discepoli (cfr Mt 20,29-34). Cercare di arrampicarsi nella vita, di essere superiori agli altri, distrugge l'armonia. È la logica del dominio, di dominare gli altri. L’armonia è un’altra cosa: è il servizio.

Chiediamo, dunque, al Signore di darci occhi attenti ai fratelli e alle sorelle, specialmente a quelli che soffrono. Come discepoli di Gesù non vogliamo essere indifferenti né individualisti, questi sono i due atteggiamenti brutti contro l’armonia. Indifferente: io guardo da un’altra parte. Individualisti: guardare soltanto il proprio interesse. L’armonia creata da Dio ci chiede di guardare gli altri, i bisogni degli altri, i problemi degli altri, essere in comunione. Vogliamo riconoscere in ogni persona, qualunque sia la sua razza, lingua o condizione, la dignità umana. L’armonia ti porta a riconoscere la dignità umana, quell’armonia creata da Dio, con l’uomo al centro.

Il Concilio Vaticano II sottolinea che questa dignità è inalienabile, perché «è stata creata a immagine di Dio» (Cost. past. Gaudium et spes, 12). Essa sta a fondamento di tutta la vita sociale e ne determina i principi operativi. Nella cultura moderna, il riferimento più vicino al principio della dignità inalienabile della persona è la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, che San Giovanni Paolo II ha definito «pietra miliare posta sul lungo e difficile cammino del genere umano»,[1] e come «una delle più alte espressioni della coscienza umana».[2] I diritti non sono solo individuali, ma anche sociali; sono dei popoli, delle nazioni.[3] L’essere umano, infatti, nella sua dignità personale, è un essere sociale, creato a immagine di Dio Uno e Trino. Noi siamo esseri sociali, abbiamo bisogno di vivere in questa armonia sociale, ma quando c’è l’egoismo, il nostro sguardo non va agli altri, alla comunità, ma torna su noi stessi e questo ci fa brutti, cattivi, egoisti, distruggendo l’armonia.

Questa rinnovata consapevolezza della dignità di ogni essere umano ha serie implicazioni sociali, economiche e politiche. Guardare il fratello e tutto il creato come dono ricevuto dall’amore del Padre suscita un comportamento di attenzione, di cura e di stupore. Così il credente, contemplando il prossimo come un fratello e non come un estraneo, lo guarda con compassione ed empatia, non con disprezzo o inimicizia. E contemplando il mondo alla luce della fede, si adopera a sviluppare, con l’aiuto della grazia, la sua creatività e il suo entusiasmo per risolvere i drammi della storia. Concepisce e sviluppa le sue capacità come responsabilità che scaturiscono dalla sua fede,[4] come doni di Dio da mettere al servizio dell’umanità e del creato.

Mentre tutti noi lavoriamo per la cura da un virus che colpisce tutti in maniera indistinta, la fede ci esorta a impegnarci seriamente e attivamente per contrastare l’indifferenza davanti alle violazioni della dignità umana. Questa cultura dell’indifferenza che accompagna la cultura dello scarto: le cose che non mi toccano non mi interessano. La fede sempre esige di lasciarci guarire e convertire dal nostro individualismo, sia personale sia collettivo; un individualismo di partito, per esempio.

Possa il Signore “restituirci la vista” per riscoprire che cosa significa essere membri della famiglia umana. E possa questo sguardo tradursi in azioni concrete di compassione e rispetto per ogni persona e di cura e custodia per la nostra casa comune.

Papa Francesco, Udienza Generale. Biblioteca del Palazzo Apostolico. Mercoledì, 12 agosto 2020




Catechesi - “Guarire il mondo”: 3. L’opzione preferenziale per i poveri e la virtù della carità

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

La pandemia ha messo allo scoperto la difficile situazione dei poveri e la grande ineguaglianza che regna nel mondo. E il virus, mentre non fa eccezioni tra le persone, ha trovato, nel suo cammino devastante, grandi disuguaglianze e discriminazioni. E le ha aumentate!

La risposta alla pandemia è quindi duplice. Da un lato, è indispensabile trovare la cura per un virus piccolo ma tremendo, che mette in ginocchio il mondo intero. Dall’altro, dobbiamo curare un grande virus, quello dell’ingiustizia sociale, della disuguaglianza di opportunità, della emarginazione e della mancanza di protezione dei più deboli. In questa doppia risposta di guarigione c’è una scelta che, secondo il Vangelo, non può mancare: l’opzione preferenziale per i poveri (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium [EG], 195). E questa non è un’opzione politica; neppure un’opzione ideologica, un’opzione di partiti. L’opzione preferenziale per i poveri è al centro del Vangelo. E il primo a farla è stato Gesù; lo abbiamo sentito nel brano della Lettera ai Corinzi che è stato letto all’inizio. Lui, essendo ricco, si è fatto povero per arricchire noi. Si è fatto uno di noi e per questo, al centro del Vangelo, al centro dell’annuncio di Gesù c’è questa opzione.

Cristo stesso, che è Dio, ha spogliato sé stesso, rendendosi simile agli uomini; e non ha scelto una vita di privilegio, ma ha scelto la condizione di servo (cfr Fil 2,6-7). Annientò sé stesso facendosi servo. È nato in una famiglia umile e ha lavorato come artigiano. All’inizio della sua predicazione, ha annunciato che nel Regno di Dio i poveri sono beati (cfr Mt 5,3; Lc 6,20; EG, 197). Stava in mezzo ai malati, ai poveri, agli esclusi, mostrando loro l’amore misericordioso di Dio (cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, 2444). E tante volte è stato giudicato come un uomo impuro perché andava dai malati, dai lebbrosi, che secondo la legge dell’epoca erano impuri. E Lui ha rischiato per essere vicino ai poveri.

Per questo, i seguaci di Gesù si riconoscono dalla loro vicinanza ai poveri, ai piccoli, ai malati e ai carcerati, agli esclusi, ai dimenticati, a chi è privo del cibo e dei vestiti (cfr Mt 25,31-36; CCC, 2443). Possiamo leggere quel famoso parametro sul quale saremo giudicati tutti, saremo giudicati tutti. È Matteo, capitolo 25. Questo è un criterio-chiave di autenticità cristiana (cfr Gal 2,10; EG, 195). Alcuni pensano, erroneamente, che questo amore preferenziale per i poveri sia un compito per pochi, ma in realtà è la missione di tutta la Chiesa, diceva San Giovanni Paolo II (cfr S. Giovanni Paolo II, Enc. Sollicitudo rei socialis, 42). «Ogni cristiano e ogni comunità sono chiamati ad essere strumenti di Dio per la liberazione e la promozione dei poveri» (EG, 187).

La fede, la speranza e l’amore necessariamente ci spingono verso questa preferenza per i più bisognosi,[1] che va oltre la pur necessaria assistenza (cfr EG, 198). Implica infatti il camminare assieme, il lasciarci evangelizzare da loro, che conoscono bene Cristo sofferente, il lasciarci “contagiare” dalla loro esperienza della salvezza, dalla loro saggezza e dalla loro creatività (cfr ibid.). Condividere con i poveri significa arricchirci a vicenda. E, se ci sono strutture sociali malate che impediscono loro di sognare per il futuro, dobbiamo lavorare insieme per guarirle, per cambiarle (cfr ibid., 195). E a questo conduce l’amore di Cristo, che ci ha amato fino all’estremo (cfr Gv 13,1) e arriva fino ai confini, ai margini, alle frontiere esistenziali. Portare le periferie al centro significa centrare la nostra vita in Cristo, che «si è fatto povero» per noi, per arricchirci «per mezzo della sua povertà» (2 Cor 8,9).[2]

Tutti siamo preoccupati per le conseguenze sociali della pandemia. Tutti. Molti vogliono tornare alla normalità e riprendere le attività economiche. Certo, ma questa “normalità” non dovrebbe comprendere le ingiustizie sociali e il degrado dell’ambiente. La pandemia è una crisi e da una crisi non si esce uguali: o usciamo migliori o usciamo peggiori. Noi dovremmo uscire migliori, per migliorare le ingiustizie sociali e il degrado ambientale. Oggi abbiamo un’occasione per costruire qualcosa di diverso. Per esempio, possiamo far crescere un’economia di sviluppo integrale dei poveri e non di assistenzialismo. Con questo io non voglio condannare l’assistenza, le opere di assistenza sono importanti. Pensiamo al volontariato, che è una delle strutture più belle che ha la Chiesa italiana. Ma dobbiamo andare oltre e risolvere i problemi che ci spingono a fare assistenza. Un’economia che non ricorra a rimedi che in realtà avvelenano la società, come i rendimenti dissociati dalla creazione di posti di lavoro dignitosi (cfr EG, 204). Questo tipo di profitti è dissociato dall’economia reale, quella che dovrebbe dare beneficio alla gente comune (cfr Enc. Laudato si’ [LS], 109), e inoltre risulta a volte indifferente ai danni inflitti alla casa comune. L’opzione preferenziale per i poveri, questa esigenza etico-sociale che proviene dall’amore di Dio (cfr LS, 158), ci dà l’impulso a pensare e disegnare un’economia dove le persone, e soprattutto i più poveri, siano al centro. E ci incoraggia anche a progettare la cura del virus privilegiando coloro che ne hanno più bisogno. Sarebbe triste se nel vaccino per il Covid-19 si desse la priorità ai più ricchi! Sarebbe triste se questo vaccino diventasse proprietà di questa o quella Nazione e non sia universale e per tutti. E che scandalo sarebbe se tutta l’assistenza economica che stiamo osservando – la maggior parte con denaro pubblico – si concentrasse a riscattare industrie che non contribuiscono all’inclusione degli esclusi, alla promozione degli ultimi, al bene comune o alla cura del creato (ibid.). Sono dei criteri per scegliere quali saranno le industrie da aiutare: quelle che contribuiscono all’inclusione degli esclusi, alla promozione degli ultimi, al bene comune e alla cura del creato. Quattro criteri.

Se il virus dovesse nuovamente intensificarsi in un mondo ingiusto per i poveri e i più vulnerabili, dobbiamo cambiare questo mondo. Con l’esempio di Gesù, il medico dell’amore divino integrale, cioè della guarigione fisica, sociale e spirituale (cfr Gv 5,6-9) – come era la guarigione che faceva Gesù -, dobbiamo agire ora, per guarire le epidemie provocate da piccoli virus invisibili, e per guarire quelle provocate dalle grandi e visibili ingiustizie sociali. Propongo che ciò venga fatto a partire dall’amore di Dio, ponendo le periferie al centro e gli ultimi al primo posto. Non dimenticare quel parametro sul quale saremo giudicati, Matteo, capitolo 25. Mettiamolo in pratica in questa ripresa dall’epidemia. E a partire da questo amore concreto, ancorato alla speranza e fondato nella fede, un mondo più sano sarà possibile. Al contrario, usciremo peggio dalla crisi. Che il Signore ci aiuti, ci dia la forza per uscire migliori, rispondendo alle necessità del mondo di oggi.

Papa Francesco, Udienza Generale. Biblioteca del Palazzo Apostolico. Mercoledì, 5 agosto 2020

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