top of page

Blog

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi vorrei soffermarmi sulla preghiera che possiamo fare a partire da un brano della Bibbia


Le parole della Sacra Scrittura non sono state scritte per restare imprigionate sul papiro, sulla pergamena o sulla carta, ma per essere accolte da una persona che prega, facendole germogliare nel proprio cuore. La parola di Dio va al cuore. Il Catechismo afferma: «La lettura della Sacra Scrittura dev’essere accompagnata dalla preghiera – la Bibbia non può essere letta come un romanzo –, affinché possa svolgersi il colloquio tra Dio e l’uomo» (n. 2653). Così ti porta la preghiera, perché è un dialogo con Dio. Quel versetto della Bibbia è stato scritto anche per me, secoli e secoli fa, per portarmi una parola di Dio. È stato scritto per ognuno di noi. A tutti i credenti capita questa esperienza: un passo della Scrittura, ascoltato già tante volte, un giorno improvvisamente mi parla e illumina una situazione che sto vivendo. Ma bisogna che io, quel giorno, sia lì, all’appuntamento con quella Parola, sia lì, ascoltando la Parola. Tutti i giorni Dio passa e getta un seme nel terreno della nostra vita. Non sappiamo se oggi troverà un suolo arido, dei rovi, oppure una terra buona, che farà crescere quel germoglio (cfr Mc 4,3-9). Dipende da noi, dalla nostra preghiera, dal cuore aperto con cui ci accostiamo alle Scritture perché diventino per noi Parola vivente di Dio. Dio passa, continuamente, tramite la Scrittura. E riprendo quello che ho detto la settimana scorsa, che diceva Sant’Agostino: “Ho timore del Signore quando passa”. Perché timore? Che io non lo ascolti, che non mi accorga che è il Signore.

Attraverso la preghiera avviene come una nuova incarnazione del Verbo. E siamo noi i “tabernacoli” dove le parole di Dio vogliono essere ospitate e custodite, per poter visitare il mondo. Per questo bisogna accostarsi alla Bibbia senza secondi fini, senza strumentalizzarla. Il credente non cerca nelle Sacre Scritture l’appoggio per la propria visione filosofica o morale, ma perché spera in un incontro; sa che esse, quelle parole, sono state scritte nello Spirito Santo, e che pertanto in quello stesso Spirito vanno accolte, vanno comprese, perché l’incontro si realizzi.

A me dà un po’ di fastidio quando sento cristiani che recitano versetti della Bibbia come i pappagalli. “Oh, sì, il Signore dice…, vuole così…”. Ma tu ti sei incontrato con il Signore, con quel versetto? Non è un problema solo di memoria: è un problema della memoria del cuore, quella che ti apre per l’incontro con il Signore. E quella parola, quel versetto, di porta all’incontro con il Signore.

Noi, dunque, leggiamo le Scritture perché esse “leggano noi”. Ed è una grazia potersi riconoscere in questo o quel personaggio, in questa o quella situazione. La Bibbia non è scritta per un’umanità generica, ma per noi, per me, per te, per uomini e donne in carne e ossa, uomini e donne che hanno nome e cognome, come me, come te. E la Parola di Dio, impregnata di Spirito Santo, quando è accolta con un cuore aperto, non lascia le cose come prima, mai, cambia qualcosa. E questa è la grazia e la forza della Parola di Dio.

La tradizione cristiana è ricca di esperienze e di riflessioni sulla preghiera con la Sacra Scrittura. In particolare, si è affermato il metodo della “lectio divina”, nato in ambiente monastico, ma ormai praticato anche dai cristiani che frequentano le parrocchie. Si tratta anzitutto di leggere il brano biblico con attenzione, di più, direi con “obbedienza” al testo, per comprendere ciò che significa in sé stesso. Successivamente si entra in dialogo con la Scrittura, così che quelle parole diventino motivo di meditazione e di orazione: sempre rimanendo aderente al testo, comincio a interrogarmi su che cosa “dice a me”. È un passaggio delicato: non bisogna scivolare in interpretazioni soggettivistiche ma inserirsi nel solco vivente della Tradizione, che unisce ciascuno di noi alla Sacra Scrittura. E l’ultimo passo della lectio divina è la contemplazione. Qui le parole e i pensieri lasciano il posto all’amore, come tra innamorati ai quali a volte basta guardarsi in silenzio. Il testo biblico rimane, ma come uno specchio, come un’icona da contemplare. E così si ha il dialogo.

Attraverso la preghiera, la Parola di Dio viene ad abitare in noi e noi abitiamo in essa. La Parola ispira buoni propositi e sostiene l’azione; ci dà forza, ci dà serenità, e anche quando ci mette in crisi ci dà pace. Nelle giornate “storte” e confuse, assicura al cuore un nucleo di fiducia e di amore che lo protegge dagli attacchi del maligno.

Così la Parola di Dio si fa carne – mi permetto di usare questa espressione: si fa carne – in coloro che la accolgono nella preghiera. In qualche testo antico affiora l’intuizione che i cristiani si identificano talmente con la Parola che, se anche bruciassero tutte le Bibbie del mondo, se ne potrebbe ancora salvare il “calco” attraverso l’impronta che ha lasciato nella vita dei santi. È una bella espressione, questa.




La vita cristiana è opera, nello stesso tempo, di obbedienza e di creatività. Un buon cristiano deve essere obbediente, ma deve essere creativo. Obbediente, perché ascolta la Parola di Dio; creativo, perché ha lo Spirito Santo dentro che lo spinge a praticarla, a portarla avanti. Gesù lo dice alla fine di un suo discorso pronunciato in parabole, con questo paragone: «Ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro – il cuore – cose nuove e cose antiche» (Mt 13,52). Le Sacre Scritture sono un tesoro inesauribile. Il Signore ci conceda, a tutti noi, di attingervi sempre più, mediante la preghiera. Grazie.


Papa Francesco, Udienza Generale, Mercoledì 27 Gennaio 2021, Biblioteca del Palazzo Apostolico.



Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

In questa catechesi mi soffermerò sulla preghiera per l’unità dei cristiani.


Infatti, la settimana che va dal 18 al 25 gennaio è dedicata in particolare a questo, a invocare da Dio il dono dell’unità per superare lo scandalo delle divisioni tra i credenti in Gesù. Egli, dopo l’Ultima Cena, ha pregato per i suoi, «perché tutti siano una sola cosa» (Gv 17,21). È la sua preghiera prima della Passione, potremmo dire il suo testamento spirituale. Notiamo, però, che il Signore non ha comandato ai discepoli l’unità. Nemmeno ha tenuto loro un discorso per motivarne l’esigenza. No, ha pregato il Padre per noi, perché fossimo una cosa sola. Ciò significa che non bastiamo noi, con le nostre forze, a realizzare l’unità. L’unità è anzitutto un dono, è una grazia da chiedere con la preghiera.

Ciascuno di noi ne ha bisogno. Infatti, ci accorgiamo che non siamo capaci di custodire l’unità neppure in noi stessi. Anche l’apostolo Paolo sentiva dentro di sé un conflitto lacerante: volere il bene ed essere inclinato al male (cfr Rm 7,19). Aveva così colto che la radice di tante divisioni che ci sono attorno a noi – tra le persone, in famiglia, nella società, tra i popoli e pure tra i credenti – è dentro di noi. Il Concilio Vaticano II afferma che «gli squilibri di cui soffre il mondo si collegano con quel più profondo squilibrio che è radicato nel cuore dell’uomo. È proprio all’interno dell’uomo che molti elementi si combattono a vicenda. […] Per cui soffre in se stesso una divisione, dalla quale provengono anche tante e così gravi discordie nella società» (Gaudium et spes, 10). Dunque, la soluzione alle divisioni non è opporsi a qualcuno, perché la discordia genera altra discordia. Il vero rimedio comincia dal chiedere a Dio la pace, la riconciliazione, l’unità.

Questo vale prima di tutto per i cristiani: l’unità può giungere solo come frutto della preghiera. Gli sforzi diplomatici e i dialoghi accademici non bastano. Gesù lo sapeva e ci ha aperto la via, pregando. La nostra preghiera per l’unità è così un’umile ma fiduciosa partecipazione alla preghiera del Signore, il quale ha promesso che ogni preghiera fatta nel suo nome sarà ascoltata dal Padre (cfr Gv 15,7). A questo punto possiamo chiederci: “Io prego per l’unità?”. È la volontà di Gesù ma, se passiamo in rassegna le intenzioni per cui preghiamo, probabilmente ci accorgeremo di aver pregato poco, forse mai, per l’unità dei cristiani. Eppure da essa dipende la fede nel mondo; il Signore infatti ha chiesto l’unità tra noi «perché il mondo creda» (Gv 17,21). Il mondo non crederà perché lo convinceremo con buoni argomenti, ma se avremo testimoniato l’amore che ci unisce e ci fa vicini a tutti.

In questo tempo di gravi disagi è ancora più necessaria la preghiera perché l’unità prevalga sui conflitti. È urgente accantonare i particolarismi per favorire il bene comune, e per questo è fondamentale il nostro buon esempio: è essenziale che i cristiani proseguano il cammino verso l’unità piena, visibile. Negli ultimi decenni, grazie a Dio, sono stati fatti molti passi in avanti, ma occorre perseverare nell’amore e nella preghiera, senza sfiducia e senza stancarsi. È un percorso che lo Spirito Santo ha suscitato nella Chiesa, nei cristiani e in tutti noi, e dal quale non torneremo più indietro. Sempre avanti!

Pregare significa lottare per l’unità. Sì, lottare, perché il nostro nemico, il diavolo, come dice la parola stessa, è il divisore. Gesù chiede l’unità nello Spirito Santo, a fare unità. Il diavolo sempre divide, perché è conveniente per lui dividere. Lui insinua la divisione, ovunque e in tutti i modi, mentre lo Spirito Santo fa sempre convergere in unità. Il diavolo, in genere, non ci tenta sull’alta teologia, ma sulle debolezze dei fratelli. È astuto: ingigantisce gli sbagli e i difetti altrui, semina discordia, provoca la critica e crea fazioni. La via di Dio è un’altra: ci prende come siamo, ci ama tanto, ma ci ama come siamo e ci prende come siamo; ci prende differenti, ci prende peccatori, e sempre ci spinge all’unità. Possiamo fare una verifica su noi stessi e chiederci se, nei luoghi in cui viviamo, alimentiamo la conflittualità o lottiamo per far crescere l’unità con gli strumenti che Dio ci ha dato: la preghiera e l’amore. Invece alimentare la conflittualità si fa con il chiacchiericcio, sempre, sparlando degli altri. Il chiacchiericcio è l’arma più alla mano che ha il diavolo per dividere la comunità cristiana, per dividere la famiglia, per dividere gli amici, per dividere sempre. Lo Spirito Santo ci ispira sempre l’unità.

Il tema di questa Settimana di preghiera riguarda proprio l’amore: “Rimanete nel mio amore: produrrete molto frutto” (cfr Gv 15,5-9). La radice della comunione è l’amore di Cristo, che ci fa superare i pregiudizi per vedere nell’altro un fratello e una sorella da amare sempre. Allora scopriamo che i cristiani di altre confessioni, con le loro tradizioni, con la loro storia, sono doni di Dio, sono doni presenti nei territori delle nostre comunità diocesane e parrocchiali. Cominciamo a pregare per loro e, quando possibile, con loro. Così impareremo ad amarli e ad apprezzarli. La preghiera, ricorda il Concilio, è l’anima di tutto il movimento ecumenico (cfr Unitatis redintegratio, 8). Sia pertanto, la preghiera, il punto di partenza per aiutare Gesù a realizzare il suo sogno: che tutti siano una cosa sola.



Papa Francesco, Udienza Generale, Mercoledì 20 Gennaio 2021, Biblioteca del Palazzo Apostolico.

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Proseguiamo la catechesi sulla preghiera, e oggi diamo spazio alla dimensione della lode.


Prendiamo spunto da un passaggio critico della vita di Gesù. Dopo i primi miracoli e il coinvolgimento dei discepoli nell’annuncio del Regno di Dio, la missione del Messia attraversa una crisi. Giovanni Battista dubita e gli fa arrivare questo messaggio – Giovanni è in carcere: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?» (Mt 11,3). Lui sente questa angoscia di non sapere se ha sbagliato nell’annuncio. Sempre ci sono nella vita momenti bui, momenti di notte spirituale, e Giovanni sta passando questo momento. C’è ostilità nei villaggi sul lago, dove Gesù aveva compiuto tanti segni prodigiosi (cfr Mt 11,20-24). Ora, proprio in questo momento di delusione, Matteo riferisce un fatto davvero sorprendente: Gesù non eleva al Padre un lamento, ma un inno di giubilo: «Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli» (Mt 11,25). Cioè, in piena crisi, in pieno buio nell’anima di tanta gente, come Giovanni il Battista, Gesù benedice il Padre, Gesù loda il Padre. Ma perché?

Anzitutto lo loda per quello che è: «Padre, Signore del cielo e della terra». Gesù gioisce nel suo spirito perché sa e sente che suo Padre è il Dio dell’universo, e viceversa il Signore di tutto ciò che esiste è il Padre, “il Padre mio”. Da questa esperienza di sentirsi “il figlio dell’Altissimo” scaturisce la lode. Gesù si sente figlio dell’Altissimo.

E poi Gesù loda il Padre perché predilige i piccoli. È quello che Lui stesso sperimenta, predicando nei villaggi: i “dotti” e i “sapienti” rimangono sospettosi e chiusi, fanno dei calcoli; mentre i “piccoli” si aprono e accolgono il messaggio. Questo non può che essere volontà del Padre, e Gesù se ne rallegra. Anche noi dobbiamo gioire e lodare Dio perché le persone umili e semplici accolgono il Vangelo. Io gioisco quando io vedo questa gente semplice, questa gente umile che va in pellegrinaggio, che va a pregare, che canta, che loda, gente alla quale forse mancano tante cose ma l’umiltà li porta a lodare Dio. Nel futuro del mondo e nelle speranze della Chiesa ci sono sempre i “piccoli”: coloro che non si reputano migliori degli altri, che sono consapevoli dei propri limiti e dei propri peccati, che non vogliono dominare sugli altri, che, in Dio Padre, si riconoscono tutti fratelli.

Dunque, in quel momento di apparente fallimento, dove tutto è buio, Gesù prega lodando il Padre. E la sua preghiera conduce anche noi, lettori del Vangelo, a giudicare in maniera diversa le nostre sconfitte personali, le situazioni in cui non vediamo chiara la presenza e l’azione di Dio, quando sembra che il male prevalga e non ci sia modo di arrestarlo. Gesù, che pure ha tanto raccomandato la preghiera di domanda, proprio nel momento in cui avrebbe avuto motivo di chiedere spiegazioni al Padre, invece si mette a lodarlo. Sembra una contraddizione, ma è lì, la verità.

A chi serve la lode? A noi o a Dio? Un testo della liturgia eucaristica ci invita a pregare Dio in questa maniera, dice così: «Tu non hai bisogno della nostra lode, ma per un dono del tuo amore ci chiami a renderti grazie; i nostri inni di benedizione non accrescono la tua grandezza, ma ci ottengono la grazia che ci salva» (Messale Romano, Prefazio comune IV). Lodando siamo salvati.

La preghiera di lode serve a noi. Il Catechismo la definisce così: «una partecipazione alla beatitudine dei cuori puri, che amano Dio nella fede prima di vederlo nella Gloria» (n. 2639). Paradossalmente deve essere praticata non solo quando la vita ci ricolma di felicità, ma soprattutto nei momenti difficili, nei momenti bui quando il cammino si inerpica in salita. È anche quello il tempo della lode, come Gesù che nel momento buio loda il Padre. Perché impariamo che attraverso quella salita, quel sentiero difficile, quel sentiero faticoso, quei passaggi impegnativi si arriva a vedere un panorama nuovo, un orizzonte più aperto. Lodare è come respirare ossigeno puro: ti purifica l’anima, ti fa guardare lontano, non ti lascia imprigionato nel momento difficile e buio delle difficoltà.



C’è un grande insegnamento in quella preghiera che da otto secoli non ha mai smesso di palpitare, che San Francesco compose sul finire della sua vita: il “Cantico di frate sole” o “delle creature”. Il Poverello non lo compose in un momento di gioia, di benessere, ma al contrario in mezzo agli stenti. Francesco è ormai quasi cieco, e avverte nel suo animo il peso di una solitudine che mai prima aveva provato: il mondo non è cambiato dall’inizio della sua predicazione, c’è ancora chi si lascia dilaniare da liti, e in più avverte i passi della morte che si fanno più vicini. Potrebbe essere il momento della delusione, di quella delusione estrema e della percezione del proprio fallimento. Ma Francesco in quell’istante di tristezza, in quell’istante buio prega. Come prega? “Laudato si’, mi Signore…”. Prega lodando. Francesco loda Dio per tutto, per tutti i doni del creato, e anche per la morte, che con coraggio chiama “sorella”, “sorella morte”. Questi esempi dei Santi, dei cristiani, anche di Gesù, di lodare Dio nei momenti difficili, ci aprono le porte di una strada molto grande verso il Signore e ci purificano sempre. La lode purifica sempre.

I Santi e le Sante ci dimostrano che si può lodare sempre, nella buona e nella cattiva sorte, perché Dio è l’Amico fedele. Questo è il fondamento della lode: Dio è l’Amico fedele, e il suo amore non viene mai meno. Sempre Lui è accanto a noi, Lui ci aspetta sempre. Qualcuno diceva: “E’ la sentinella che è vicino a te e ti fa andare avanti con sicurezza”. Nei momenti difficili e bui, troviamo il coraggio di dire: “Benedetto sei tu, o Signore”. Lodare il Signore. Questo ci farà tanto bene.


Papa Francesco, Udienza Generale, Mercoledì 13 Gennaio 2021, Biblioteca del Palazzo Apostolico.


bottom of page