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Il Santo Padre Francesco ha nominato monsignor Augusto Paolo Lojudice, dal 2015 ausiliare del settore Sud della diocesi di Roma, arcivescovo metropolita di Siena – Colle di Val d’Elsa – Montalcino. Il cardinale Angelo De Donatis, vicario generale di Sua Santità per la diocesi di Roma ha dato l’annuncio della nomina del Pontefice alle 12 di oggi (lunedì 6 maggio 2019), nell’Aula della Conciliazione del Palazzo Apostolico del Laterano, sede del Vicariato di Roma, in contemporanea con la Sala Stampa della Santa Sede. Erano presenti i vescovi ausiliari della diocesi, i parroci prefetti con molti sacerdoti e il personale del Vicariato di Roma.


Il vescovo Lojudice è nato a Roma il primo luglio 1964 ed è stato ordinato sacerdote il 6 maggio 1989 a San Giovanni in Laterano. Eletto vescovo il 6 marzo 2015, è stato ordinato il successivo 23 maggio nella cattedrale di Roma. Per la diocesi di Roma ha ricoperto l’incarico di ausiliare per il Settore Sud e vicario generale della Diocesi suburbicaria di Ostia. Monsignor Lojudice è segretario della Commissione episcopale per le migrazioni della Conferenza episcopale italiana e presidente della stessa commissione per la Conferenza episcopale del Lazio. Appena ordinato sacerdote, ha ricoperto gli incarichi di vicario parrocchiale a Santa Maria del Buon Consiglio (1989 – 1992) e a San Vigilio (1992 – 1997). È stato poi parroco di Santa Maria Madre del Redentore dal 1997 al 2005 e direttore spirituale del Pontificio Seminario Romano Maggiore dal 2005 al 2014. Dal primo settembre 2014 al 23 maggio 2015 è stato parroco a San Luca Evangelista.


Nel comunicare la nomina, il cardinale De Donatis ha «ringraziato il Signore» per tutti gli anni che «don Paolo ha vissuto nella chiesa di Roma»; ne ha ricordato «lo spirito spiccatamente romano» , l’«attenzione alla dimensione caritativa» e alla «realtà missionaria»; «il rapporto molto vivo con i sacerdoti e le comunità», lo «stile fatto di presenza, tenacia, realismo».


«Il Signore mi fa la sua chiamata, ancora una volta», ha commentato monsignor Lojudice, che ha poi ricordato i tanti «provvidenziali motivi e spunti di comunione» tra Roma e Siena, fin dalle origini delle due città. «Siamo fatti tutti di una comune umanità – ha osservato ancora -. Questa consapevolezza mi ha spinto sempre più a superare e a far superare barriere, ostacoli, muri che spesso si ergono tra le persone; a capire che la nostra vocazione e la nostra vita sacerdotale sono “impastate” con quella della gente a cui siamo mandati, che non sono prima alcuni o prima altri, vicino o lontani, bianchi o neri, ma tutti… A comprendere e a far comprendere che noi preti per primi dobbiamo scendere dai “piedistalli di argilla” dove qualche volta saliamo con il rischio di precipitare rovinosamente a terra, per servire prima di essere serviti».


6 Maggio 2019




Cari fratelli e sorelle, buongiorno!


Proseguiamo nella catechesi sul “Padre nostro”, arrivando ormai alla penultima invocazione: «Non abbandonarci alla tentazione» (Mt 6,13). Un’altra versione dice: “Non lasciare che cadiamo in tentazione”. Il “Padre nostro” incomincia in maniera serena: ci fa desiderare che il grande progetto di Dio si possa compiere in mezzo a noi. Poi getta uno sguardo sulla vita, e ci fa domandare ciò di cui abbiamo bisogno ogni giorno: il “pane quotidiano”. Poi la preghiera si rivolge alle nostre relazioni interpersonali, spesso inquinate dall’egoismo: chiediamo il perdono e ci impegniamo a darlo. Ma è con questa penultima invocazione che il nostro dialogo con il Padre celeste entra, per così dire, nel vivo del dramma, cioè sul terreno del confronto tra la nostra libertà e le insidie del maligno.


Come è noto, l’espressione originale greca contenuta nei Vangeli è difficile da rendere in maniera esatta, e tutte le traduzioni moderne sono un po’ zoppicanti. Su un elemento però possiamo convergere in maniera unanime: comunque si comprenda il testo, dobbiamo escludere che sia Dio il protagonista delle tentazioni che incombono sul cammino dell’uomo. Come se Dio stesse in agguato per tendere insidie e tranelli ai suoi figli. Un’interpretazione di questo genere contrasta anzitutto con il testo stesso, ed è lontana dall’immagine di Dio che Gesù ci ha rivelato. Non dimentichiamo: il “Padre nostro” incomincia con “Padre”. E un padre non fa dei tranelli ai figli. I cristiani non hanno a che fare con un Dio invidioso, in competizione con l’uomo, o che si diverte a metterlo alla prova. Queste sono le immagini di tante divinità pagane. Leggiamo nella Lettera di Giacomo apostolo: «Nessuno, quando è tentato, dica: “Sono tentato da Dio”; perché Dio non può essere tentato al male ed egli non tenta nessuno» (1,13). Semmai il contrario: il Padre non è l’autore del male, a nessun figlio che chiede un pesce dà una serpe (cfr Lc 11,11) – come Gesù insegna – e quando il male si affaccia nella vita dell’uomo, combatte al suo fianco, perché possa esserne liberato. Un Dio che sempre combatte per noi, non contro di noi. È il Padre! È in questo senso che noi preghiamo il “Padre nostro”.


Questi due momenti – la prova e la tentazione – sono stati misteriosamente presenti nella vita di Gesù stesso. In questa esperienza il Figlio di Dio si è fatto completamente nostro fratello, in una maniera che sfiora quasi lo scandalo. E sono proprio questi brani evangelici a dimostrarci che le invocazioni più difficili del “Padre nostro”, quelle che chiudono il testo, sono già state esaudite: Dio non ci ha lasciato soli, ma in Gesù Egli si manifesta come il “Dio-con-noi” fino alle estreme conseguenze. È con noi quando ci dà la vita, è con noi durante la vita, è con noi nella gioia, è con noi nelle prove, è con noi nelle tristezze, è con noi nelle sconfitte, quando noi pecchiamo, ma sempre è con noi, perché è Padre e non può abbandonarci.


Se siamo tentati di compiere il male, negando la fraternità con gli altri e desiderando un potere assoluto su tutto e tutti, Gesù ha già combattuto per noi questa tentazione: lo attestano le prime pagine dei Vangeli. Subito dopo aver ricevuto il battesimo da Giovanni, in mezzo alla folla dei peccatori, Gesù si ritira nel deserto e viene tentato da Satana. Incomincia così la vita pubblica di Gesù, con la tentazione che viene da Satana. Satana era presente. Tanta gente dice: “Ma perché parlare del diavolo che è una cosa antica? Il diavolo non esiste”. Ma guarda che cosa ti insegna il Vangelo: Gesù si è confrontato con il diavolo, è stato tentato da Satana. Ma Gesù respinge ogni tentazione ed esce vittorioso. Il Vangelo di Matteo ha una nota interessante che chiude il duello tra Gesù e il Nemico: «Allora il diavolo lo lasciò, ed ecco, degli angeli gli si avvicinarono e lo servivano» (4,11).


Ma anche nel tempo della prova suprema Dio non ci lascia soli. Quando Gesù si ritira a pregare nel Getsemani, il suo cuore viene invaso da un’angoscia indicibile – così dice ai discepoli – ed Egli sperimenta la solitudine e l’abbandono. Solo, con la responsabilità di tutti i peccati del mondo sulle spalle; solo, con un’angoscia indicibile. La prova è tanto lacerante che capita qualcosa di inaspettato. Gesù non mendica mai amore per sé stesso, eppure in quella notte sente la sua anima triste fino alla morte, e allora chiede la vicinanza dei suoi amici: «Restate qui e vegliate con me!» (Mt 26,38). Come sappiamo, i discepoli, appesantiti da un torpore causato dalla paura, si addormentarono. Nel tempo dell’agonia, Dio chiede all’uomo di non abbandonarlo, e l’uomo invece dorme. Nel tempo in cui l’uomo conosce la sua prova, Dio invece veglia. Nei momenti più brutti della nostra vita, nei momenti più sofferenti, nei momenti più angoscianti, Dio veglia con noi, Dio lotta con noi, è sempre vicino a noi. Perché? Perché è Padre. Così abbiamo incominciato la preghiera: “Padre nostro”. E un padre non abbandona i suoi figli. Quella notte di dolore di Gesù, di lotta sono l’ultimo sigillo dell’Incarnazione: Dio scende a trovarci nei nostri abissi e nei travagli che costellano la storia.


È il nostro conforto nell’ora della prova: sapere che quella valle, da quando Gesù l’ha attraversata, non è più desolata, ma è benedetta dalla presenza del Figlio di Dio. Lui non ci abbandonerà mai!

Allontana dunque da noi, o Dio, il tempo della prova e della tentazione. Ma quando arriverà per noi questo tempo, Padre nostro, mostraci che non siamo soli. Tu sei il Padre. Mostraci che il Cristo ha già preso su di sé anche il peso di quella croce. Mostraci che Gesù ci chiama a portarla con Lui, abbandonandoci fiduciosi al tuo amore di Padre. Grazie.


Roma, Piazza San Pietro, 1 Maggio 2019

Continua la catechesi sul Padre Nostro di Papa Francesco: “Come abbiamo bisogno del pane, così abbiamo bisogno del perdono”…



Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

La giornata non è tanto bella, ma buongiorno lo stesso!


Dopo aver chiesto a Dio il pane di ogni giorno, la preghiera del “Padre nostro” entra nel campo delle nostre relazioni con gli altri. E Gesù ci insegna a chiedere al Padre: «Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori» (Mt 6,12). Come abbiamo bisogno del pane, così abbiamo bisogno del perdono. E questo, ogni giorno.


Il cristiano che prega chiede anzitutto a Dio che vengano rimessi i suoi debiti, cioè i suoi peccati, le cose brutte che fa. Questa è la prima verità di ogni preghiera: fossimo anche persone perfette, fossimo anche dei santi cristallini che non deflettono mai da una vita di bene, restiamo sempre dei figli che al Padre devono tutto. L’atteggiamento più pericoloso di ogni vita cristiana qual è? È l’orgoglio. È l’atteggiamento di chi si pone davanti a Dio pensando di avere sempre i conti in ordine con Lui: l’orgoglioso crede che ha tutto al suo posto. Come quel fariseo della parabola, che nel tempio pensa di pregare ma in realtà loda se stesso davanti a Dio: “Ti ringrazio, Signore, perché io non sono come gli altri”. E la gente che si sente perfetta, la gente che critica gli altri, è gente orgogliosa. Nessuno di noi è perfetto, nessuno. Al contrario il pubblicano, che era dietro, nel tempio, un peccatore disprezzato da tutti, si ferma sulla soglia del tempio, e non si sente degno di entrare, e si affida alla misericordia di Dio. E Gesù commenta: «Questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato» (Lc 18,14), cioè perdonato, salvato. Perché? Perché non era orgoglioso, perché riconosceva i suoi limiti e i suoi peccati.


Ci sono peccati che si vedono e peccati che non si vedono. Ci sono peccati eclatanti che fanno rumore, ma ci sono anche peccati subdoli, che si annidano nel cuore senza che nemmeno ce ne accorgiamo. Il peggiore di questi è la superbia che può contagiare anche le persone che vivono una vita religiosa intensa. C’era una volta un convento di suore, nell’anno 1600-1700, famoso, al tempo del giansenismo: erano perfettissime e si diceva di loro che fossero purissime come gli angeli, ma superbe come i demoni. È una cosa brutta. Il peccato divide la fraternità, il peccato ci fa presumere di essere migliori degli altri, il peccato ci fa credere che siamo simili a Dio.

E invece davanti a Dio siamo tutti peccatori e abbiamo motivo di batterci il petto – tutti! – come quel pubblicano al tempio. San Giovanni, nella sua prima Lettera, scrive: «Se diciamo di essere senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi» (1 Gv 1,8). Se tu vuoi ingannare te stesso, dì che non hai peccato: così ti stai ingannando.


Siamo debitori anzitutto perché in questa vita abbiamo ricevuto tanto: l’esistenza, un padre e una madre, l’amicizia, le meraviglie del creato... Anche se a tutti capita di attraversare giorni difficili, dobbiamo sempre ricordarci che la vita è una grazia, è il miracolo che Dio ha estratto dal nulla.

In secondo luogo siamo debitori perché, anche se riusciamo ad amare, nessuno di noi è capace di farlo con le sue sole forze. L’amore vero è quando possiamo amare, ma con la grazia di Dio. Nessuno di noi brilla di luce propria. C’è quello che i teologi antichi chiamavano un “mysterium lunae” non solo nell’identità della Chiesa, ma anche nella storia di ciascuno di noi. Cosa significa, questo “mysterium lunae”? Che è come la luna, che non ha luce propria: riflette la luce del sole. Anche noi, non abbiamo luce propria: la luce che abbiamo è un riflesso della grazia di Dio, della luce di Dio. Se ami è perché qualcuno, all’esterno di te, ti ha sorriso quando eri un bambino, insegnandoti a rispondere con un sorriso. Se ami è perché qualcuno accanto a te ti ha risvegliato all’amore, facendoti comprendere come in esso risiede il senso dell’esistenza.


Proviamo ad ascoltare la storia di qualche persona che ha sbagliato: un carcerato, un condannato, un drogato… conosciamo tanta gente che sbaglia nella vita. Fatta salva la responsabilità, che è sempre personale, ti domandi qualche volta chi debba essere incolpato dei suoi sbagli, se solo la sua coscienza, o la storia di odio e di abbandono che qualcuno si porta dietro.

E questo è il mistero della luna: amiamo anzitutto perché siamo stati amati, perdoniamo perché siamo stati perdonati. E se qualcuno non è stato illuminato dalla luce del sole, diventa gelido come il terreno d’inverno.


Come non riconoscere, nella catena d’amore che ci precede, anche la presenza provvidente dell’amore di Dio? Nessuno di noi ama Dio quanto Lui ha amato noi. Basta mettersi davanti a un crocifisso per cogliere la sproporzione: Egli ci ha amato e sempre ci ama per primo.

Preghiamo dunque: Signore, anche il più santo in mezzo a noi non cessa di essere tuo debitore. O Padre, abbi pietà di tutti noi!


(Piazza San Pietro, Udienza generale di mercoledì 10 aprile 2019)

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