Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Nel nostro itinerario di catechesi sulla preghiera, oggi incontriamo il re Davide. Prediletto da Dio fin da ragazzo, viene scelto per una missione unica, che rivestirà un ruolo centrale nella storia del popolo di Dio e della nostra stessa fede. Nei Vangeli, Gesù è chiamato più volte “figlio di Davide”; infatti, come lui, nasce a Betlemme. Dalla discendenza di Davide, secondo le promesse, viene il Messia: un Re totalmente secondo il cuore di Dio, in perfetta obbedienza al Padre, la cui azione realizza fedelmente il suo piano di salvezza (cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, 2579).
La vicenda di Davide comincia sui colli intorno a Betlemme, dove pascola il gregge del padre, Iesse. È ancora un ragazzo, ultimo di molti fratelli. Tanto che quando il profeta Samuele, per ordine di Dio, si mette in cerca del nuovo re, sembra quasi che suo padre si sia dimenticato di quel figlio più giovane (cfr 1 Sam 16,1-13). Lavorava all’aria aperta: lo pensiamo amico del vento, dei suoni della natura, dei raggi del sole. Ha una sola compagnia per confortare la sua anima: la cetra; e nelle lunghe giornate in solitudine ama suonare e cantare al suo Dio. Giocava anche con la fionda.
Davide, dunque, è prima di tutto un pastore: un uomo che si prende cura degli animali, che li difende al sopraggiungere del pericolo, che provvede al loro sostentamento. Quando Davide, per volere di Dio, dovrà preoccuparsi del popolo, non compirà azioni molto diverse rispetto a queste. È perciò che nella Bibbia l’immagine del pastore ricorre spesso. Anche Gesù si definisce “il buon pastore”, il suo comportamento è diverso da quello del mercenario; Lui offre la sua vita in favore delle pecore, le guida, conosce il nome di ciascuna di esse (cfr Gv 10,11-18).
Dal suo primo mestiere, Davide ha imparato molto. Così, quando il profeta Natan gli rinfaccerà il suo gravissimo peccato (cfr 2 Sam 12,1-15), Davide capirà subito di essere stato un cattivo pastore, di aver depredato un altro uomo dell’unica pecora che lui amava, di non essere più un umile servitore, ma un ammalato di potere, un bracconiere che uccide e depreda.
Un secondo tratto caratteristico presente nella vocazione di Davide è il suo animo di poeta. Da questa piccola osservazione deduciamo che Davide non è stato un uomo volgare, come spesso può capitare a individui costretti a vivere a lungo isolati dalla società. È invece una persona sensibile, che ama la musica e il canto. La cetra lo accompagnerà sempre: a volte per innalzare a Dio un inno di gioia (cfr 2 Sam 6,16), altre volte per esprimere un lamento, o per confessare il proprio peccato (cfr Sal 51,3).
Il mondo che si presenta ai suoi occhi non è una scena muta: il suo sguardo coglie, dietro il dipanarsi delle cose, un mistero più grande. La preghiera nasce proprio da lì: dalla convinzione che la vita non è qualcosa che ci scivola addosso, ma un mistero stupefacente, che in noi provoca la poesia, la musica, la gratitudine, la lode, oppure il lamento, la supplica. Quando a una persona manca quella dimensione poetica, diciamo, quando manca la poesia, la sua anima zoppica. La tradizione vuole perciò che Davide sia il grande artefice della composizione dei salmi. Essi recano spesso, all’inizio, un riferimento esplicito al re d’Israele, e ad alcune delle vicende più o meno nobili della sua vita.
Davide ha dunque un sogno: quello di essere un buon pastore. Qualche volta riuscirà ad essere all’altezza di questo compito, altre volte meno; ciò che però importa, nel contesto della storia della salvezza, è il suo essere profezia di un altro Re, di cui lui è solo annuncio e prefigurazione.
Guardiamo Davide, pensiamo a Davide. Santo e peccatore, perseguitato e persecutore, vittima e carnefice, che è una contraddizione. Davide è stato tutto questo, insieme. E anche noi registriamo nella nostra vita tratti spesso opposti; nella trama del vivere, tutti gli uomini peccano spesso di incoerenza. C’è un solo filo rosso, nella vita di Davide, che dà unità a tutto ciò che accade: la sua preghiera. Quella è la voce che non si spegne mai. Davide santo, prega; Davide peccatore, prega; Davide perseguitato, prega; Davide persecutore, prega; Davide vittima, prega. Anche Davide carnefice, prega. Questo è il filo rosso della sua vita. Un uomo di preghiera. Quella è la voce che non si spegne mai: che assuma i toni del giubilo, o quelli del lamento, è sempre la stessa preghiera, solo la melodia cambia. E così facendo Davide ci insegna a far entrare tutto nel dialogo con Dio: la gioia come la colpa, l’amore come la sofferenza, l’amicizia quanto una malattia. Tutto può diventare parola rivolta al “Tu” che sempre ci ascolta.
Davide, che ha conosciuto la solitudine, in realtà, solo non lo è stato mai! E in fondo questa è la potenza della preghiera, in tutti coloro che le danno spazio nella loro vita. La preghiera ti dà nobiltà, e Davide è nobile perché prega. Ma è un carnefice che prega, si pente e la nobiltà ritorna grazie alla preghiera. La preghiera ci dà nobiltà: essa è in grado di assicurare la relazione con Dio, che è il vero Compagno di cammino dell’uomo, in mezzo alle mille traversie della vita, buone o cattive: ma sempre la preghiera. Grazie, Signore. Ho paura, Signore. Aiutami, Signore. Perdonami, Signore. È tanta la fiducia di Davide che, quando era perseguitato ed è dovuto fuggire, non lasciò che alcuno lo difendesse: “Se il mio Dio mi umilia così, Lui sa”, perché la nobiltà della preghiera ci lascia nelle mani di Dio. Quelle mani piagate di amore: le uniche mani sicure che noi abbiamo.
Papa Francesco, Udienza Generale. Biblioteca del Palazzo Apostolico. Mercoledì, 24 giugno 2020
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